sabato 5 ottobre 2013

Parte 2 – Sul Terzo Gradino

Il neon sopra la mia scrivania sfarfalla da due giorni, ho già avvertito il servizio manutenzione con l’apposita mail, ho seguito correttamente la procedura, ma sfarfalla.
Da due giorni.
Non due minuti, non due ore… due giorni.
Mi fa bruciare gli occhi, mi deconcentra, mi fa diventare scortese ed irritabile. Mi fa bere troppo caffè, poca acqua, mi contorce la lettura delle e-mail, mi innesca tic nervosi. Mi induce a tamburellare il dito medio sul bordo della tastiera, a picchiettare il piede sotto il tavolo, a toccarmi il naso settanta volte al minuto.
Spegnerlo è impossibile, l’interruttore comanda tutto l’open space e lascerei al buio gli altri colleghi.
Per questo motivo sono con un piede sulla sedia e uno sulla scrivania nel tentativo di aprire la plafoniera ed estirpare il lampo malefico.
Mentre lotto con la fredda lucciola tubolare, Marcon mi spia nascosto dai trentadue pollici del suo schermo e scuote il capo piano piano, la Signora Fantini, con il suo fare materno, mi regge la sedia per impedire alle rotelle di farmi fracassare sul pavimento. Pozzi e il rag. Strinati mi osservano da sotto dando consigli non richiesti, ridacchiando braccia conserte, come esaminatori alla prova di teoria per la patente.
“Ci vorrebbe un cacciavite a stella…”
“Prova più a destra” – e ancora – “No! Non così!”
Chi la dura la vince, così si dice, e la plafoniera lo sa. Lo sa meglio di me, infatti vince.
Ringrazio la Signora Fantini per l’aiuto, mentre i colleghi tornano alle loro postazioni. Lo spettacolo è finito e non ha soddisfatto il pubblico, a parte i dieci minuti di svago che ha donato. Il neon sfarfalla trionfante sopra di me.
Digito un acido sollecito via mail al servizio manutenzione, lo carico di livore intermittente, clicco il tasto invio e apro il programma di gestione delle buste paga.
Mi chiamo Lucio. Lucio Tavola. Ho trentacinque anni e da sei mesi lavoro come impiegato amministrativo in questo ufficio.
Sono single, porto le lenti a contatto, mi piacciono gli orologi di classe e il buon vino.
Faccio sport: nuoto, corro, pedalo. Non amo sciare, i social network, non ho un blog ne uno smartphone. Mi abbronzo d’estate, mi mangio le unghie. Adoro andare al cinema da solo.
Ho un buon rapporto coi miei colleghi, mi sono ben inserito. Pozzi, ad esempio, stamattina, appena mi ha visto con la sola camicia, mi ha portato alla sua postazione e mi ha allungato la “cravatta d’emergenza” che lascia appesa alla maniglia dello schedario.
Lavoro sodo. Sono serio ed affidabile, disponibile a trasferte, a straordinari non pagati, automunito, vaccinato e discreto. Laureato con lode, destro naturale, allergico al polline di faggio.
Sono puntuale. Sempre.
Quasi sempre. Mi viene da dire ora, che fisso la scatola di latta che mi è stata data dalla Signora Marisa.
L’ho posata nell’angolo cieco della scrivania, nessuno la può vedere, tranne me. Mentre nutro il programma con i suoi numeri ed i suoi codici di accesso, faccio scappare lo sguardo alle croste arrugginite e la mente, giocoforza, se ne va al singolare incontro di stamattina.
Non riesco ancora a capire come abbia fatto la simpatica vecchina a sparirmi sotto il naso, chiudendomi a chiave dall’interno, senza farsi vedere. Mi ripropongo di tornare a trovarla prestissimo, forse già stasera, restituirle le chiavi e a chiederle il perché di quel biglietto con su scritto “TROVALO”.
Ma trovalo chi? Cosa? E poi perché dovrei trovarlo io? E, nel caso, come?
Ripenso all’odore del suo caffè, a quella casa impolverata, ma pulita, al buio appena scalfito dalla luce che attraversa le tapparelle, alla stoffa logora e sporca che avvolge i rottami di quel revolver a “tutta la sua vita” in quella scatola di latta, che Marisa ha affidato a me.
Il software gestionale fa i capricci e, alle dieci in punto, pianta gli zoccoli a terra e raglia disperato. Si rifiuta di digerire le aliquote irpef e si pianta lanciando messaggi di errore a cascata.
Spengo il terminale e faccio al ragioniere il gesto del caffè. Pollice ed indice della mano destra ad afferrare un ipotetico manico di tazzina e due colpetti secchi, come a suonare un campanellino d’argento, con le altre tre dita in scala reale come penne maestre dell’ala di un’aquila. Strinati scatta in piedi e mi raggiunge, per lui ogni pretesto è buono per fare pausa.
“Mi sono iscritto in palestra sai?” – esordisce drizzando inavvertitamente la spina dorsale – “ho deciso di puntare sullo spinning”
“Puntare sullo spinning per fare cosa?”
“Beh per tornare tonico, buttare giù la pancetta da ragioniere, evitare il tracollo, insomma” – e, chinando il capo, sorride triste.
Strinati non l’ho mai visto ridere di gusto. Mai visto allegro o addirittura felice. A dire il vero, non l’ho mai nemmeno immaginato felice.
Gli do una bella pacca sulla spalla e gli dico: “Allora! Ragioniere! Smettiamola coi piagnistei! Non sei mai stato tonico! Goditi la vita e non stressarti” – ed una bella risata scioglie la tensione e volta pagina su temi più leggeri e tollerabili.
La varietà delle cialde per il caffè, la generosità del principale, la maestosità dello stadio di San Siro, il nuovo record del mondo sui diecimila metri, la sterminata bellezza dell’Africa, le prossime vacanze di Strinati a Cattolica.
La pausa passa in un attimo e Strinati, curvo sotto un invisibile canotto rosa a pois verdi, se ne torna mesto al suo posto.
Io riordino lo spazio comune, getto il mio bicchiere di plastica nel cesto della plastica e le briciole dello snack di Strinati in quello dell’umido. Mi incammino verso il computer nella speranza di trovarlo resuscitato.
Dalla finestra socchiusa sento distintamente arrivare il canto malinconico di una tromba duettare con un pianoforte. Sembra Passalento, sembra Paolo Fresu, ma non è possibile.
Impossibile anche che provenga dall’ufficio dove la musica è vietatissima, più probabile che sia un’autoradio di passaggio. Proseguo nel corridoio cercando di ricordare le parole che una volta sentii accompagnare quelle note, ma non ci riesco. Buio totale.
Ad tratto un piccolo flash, una percezione lucida e al tempo stesso fugace. Sulla porta del bagno, nel mio ufficio, in uno stabile blindato da due filtri di sicurezza, ho visto Marisa. Mi ha sorriso e fatto “ciao ciao” con la manina.
Torno indietro. Riguardo bene. Non c’è più. Ho le visioni? Mi prende l’ansia.
Torno alla sala caffè, guardo il cesto della plastica, quello dell’umido e ripercorro il corridoio fino al bagno: Marisa non c’è. Sospiro di sollievo.
Entro nel bagno degli uomini e scarico la tensione e, a seguire, l’acqua. Mi insapono accuratamente le mani e me le sciacquo con l’intento di lavare via la tensione per tutte queste strane, misteriose coincidenze. Strappo la striscia di carta assorbente e mi asciugo finalmente le dita, il palmo, il dorso delle mani.
Un altro strappo.
Sul rotolo, con la stessa educata calligrafia del biglietto di stamane, trovo scritto a matita “AIUTAMI”.
Sembra uno scherzo, ma inquieta come un incubo.
Nel bagno non c’è anima viva, fuori nessuno ridacchia e grida “Sei su scherzi a parte!”, tutto sembra procedere come sempre. Tranne per me.
Qualcuno, che non so chi è, mi chiede aiuto a trovare non so cosa.
Non capisco la logica di tutto questo, mi preoccupo perché perdo i punti di riferimento.
Eppure a non avere e soprattutto a non dare punti di riferimento dovrei esserci abituato…
Mi chiamo Lucio. Lucio Tavola. E’ il mio nome da sei mesi.
Per due anni mi sono chiamato Massimo Cavoli, per un lustro Luigi Scevola, ancora prima Giovanni Antimo, Luciano Pegolo, Bruno Minimo, …
Scelgo sempre cognomi sdruccioli, probabilmente perché saltano. Proprio come faccio io: mai troppo nello stesso posto, mai troppo nella stessa vita.


http://maialeimmaginario.wordpress.com/

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